PARCHI | ||
Rivista Parchi: tutti i numeri online |
Rivista del Coordinamento Nazionale dei Parchi e delle Riserve Naturali NUMERO 4 - OTTOBRE 1991 |
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Quale ruolo della protezione oggi? Renzo Moschini |
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Commentando il Convegno di Camerino avemmo modo di manifestare una preoccupazione sul dibattito in corso relativo alle aree protette. Le giuste denunce dei ritardi legislativi e politici in questo campo, che anche a Camerino avevamo puntualmente riascoltato, ci sembrarono infatti, per molti versi, ripetitive e, soprattutto, un pò sfuocate rispetto alla realtà odierna. Anche il dibattito parlamentare sulla legge-quadro, sotto questo profilo, non ci pare abbia dato finora il contributo che ci si sarebbe potuti attendere. Va detto anzi che proprio in sede parlamentare si sono forse manifestate le carenze più serie proprio dal punto di vista della documentazione. Si é avuta cioé la sensazione che anche i dati di riferimento della discussione alla Commissione Ambiente della Camera fossero piuttosto datati e sicuramente lacunosi e parziali da risultare talvolta persino palesemente distorti. Ma non é mancata, o é stata insufficiente, soltanto una più attenta e documentata riflessione sulla realtà dei parchi oggi: quanti sono, cosa sono i parchi oggi, in cosa essi sono diversi dai vecchi parchi nazionali, e così via. A questi interrogativi non sono state date sinora risposte soddisfacenti e anche quando si è cercato di farlo si é finito il più delle volte per privilegiare gli aspetti più "scontati". La polemica sui "parchi di carta", ad esempio, per quanto colga innegabilmente anche un dato reale della situazione, non è riuscita a far emergere le ragioni vere e più profonde delle difficoltà di funzionamento dei parchi e, soprattutto, il loro ruolo oggi. Si pensi, per fare un altro esempio, alle polemiche sull'opportunità e fondatezza di fissare una gerarchia di valori ambientali, per dedurne una corretta ripartizione di ruoli e di competenze tra parchi nazionali e regionali. Sono stati tirati in ballo principi, normative ed esperienze internazionali, ma nessuno si é scandalizzato del fatto che il Direttore del Parco dello Stelvio, intervistato sui lavori di "ricostruzione" della Valtellina, abbia dichiarato sconsolatamente di non essere stato neppure informato sui progetti riguardanti il territorio del Parco. E non per dimenticanza, ma proprio perché il Parco dello Stelvio, per legge, non ha alcuna competenza al riguardo. Si dirà: ma quella é una legge vecchia. Vero. Ma non è questa una buona ragione per ripensare a fondo quale deve essere oggi il ruolo di un parco rispetto a fenomeni e problemi ieri spesso inesistenti e che oggi invece risultano decisivi per una seria protezione del territorio? Ciò che vogliamo dire, in buona sostanza, é che le vecchie polemiche, e non solo quelle di ordine istituzionale, hanno contribuito probabilmente a lasciare in ombra, a non far emergere in tutta la loro portata e novità, altri nodi essenziali, sui quali riteniamo sia urgente un'attenta riflessione di tutte le forze politicamente e culturalmente impegnate nella tutela del territorio. Ci riferiamo in particolare ai "contenuti", alle finalità della protezione: a cosa deve essere oggi un'area protetta, un parco. Qui vecchio e nuovo spesso, ancora, si confondono a danno di una moderna, lucida visione e concezione della protezione. Potremmo dire che qui si scaricano; per così dire, tutte quelle contraddizioni, non risolte, di una politica ambientale che non intenda oscillare pericolosamente tra una sorta di romanticismo fondamentalista ed un ambientalismo di facciata, affidato alle sole correzioni marginali di una politica economica che produce effetti ormai insostenibili per l'ambiente. Di ciò si vanno forse rendendo meglio conto proprio le persone più impegnate, e sono molte almeno nelle Regioni dove parchi e aree protette esistono e funzionano, nella gestione di questi territori. Dobbiamo chiederci infatti se la ricerca ed il dibattito culturale, prima ancora che politico, sulle aree protette non abbia risentito negativamente di questa attenzione fortemente polarizzata dai temi istituzionali, finendo per lasciare gli altri sullo sfondo. Insomma, mentre ci si accapigliava senza esclusione di colpi su chi aveva maggior titolo per gestire le aree protette, é sempre più andato sfumandosi, fino quasi a dissolversi, l'interrogativo su: quale tutela, con quali finalità? Già parlare genericamente di difesa dell'ambiente é da taluno considerato un modo di dire pieno di banali pregiudizi ideologici, dovendosi più correttamente parlare di una "costruzione della natura compatibile con il complesso mantenimento della nostra civiltà, sia relativamente all ' insieme dei beni materiali, sia a quelli culturali" ( Fulvio Papi). E ciò per evitare di porre "la questione del rapporto uomo-natura fuori dai rapporti sociali, collocata (cioè) su un piano presociale". Per dirla con Barry Commoner "la situazione richiede una pace negoziata che tenga conto sia del bisogno di sopravvivenza della natura, sia della necessità per noi umani non solo di mantenere il livello attuale di benessere materiale, ma di accrescerlo e difenderlo e di mettere fine alla povertà" (Far pace col Pianeta, Garzanti). Dinanzi a problemi di tale vastità, che investono il destino della vita sulla terra, é evidente il rischio "dell'impallidimento" delle singole tematiche, al punto che interventi quali quelli di protezione del territorio sono da taluni considerati, quando non "sbagliati", vani e velleitari. Mi riferisco a quelle posizioni sostenute anche in un recente libro di Toraldo di Francia: "Un universo troppo semplice," che considerano "la creazione di vaste aree naturali da lasciare apparentemente intatte, "chincaglieria" che riproduce paesaggi da cartolina". Una natura divenuta merce, sottoprodotto dell'industria culturale, quella offerta dai cataloghi delle agenzie turistiche, magari all'insegna della "vacanza ecologica alternativa", creando quei musei che vengono chiamati parchi naturali, senza accorgerci che essi, appunto con la loro presenza museale, testimoniano del fatto che si tratta di archeologia. Sono posizioni, quelle riportate, che non "stimolano" certo a perseguire obiettivi anche limitati e parziali nella protezione della natura e dell'ambiente, oggi minacciati da fenomeni e cataclismi planetari, ai quali evidentemente può sembrare poco realistico far fronte con azioni "locali", inevitabilmente circoscritte, e che tuttavia appaiono troppo "disarmanti" se non "fatalistiche" per poter essere condivise, sebbene "segnalino", non v'é dubbio, rischi reali, diciamo così, di "illusionismo". Ma anche analisi meno generalizzanti e "colte", più ripiegate cioé sul "concreto", talvolta approdano a conclusioni non molto distanti e diverse. Non é azzardato quindi ritenere, per tornare all'interrogativo iniziale, che l'interesse e l'impegno sui temi della protezione, concentratosi oltre che sugli aspetti istituzionali su quelli, diciamo così, "quantitativi" (l'imperativo categorico di estendere comunque il territorio protetto del Paese - sfida del 10% - per superare il nostro pesante ritardo storico) abbia fatto perdere qualcosa in "lucidità", proprio nel momento in cui la questione ambientale esplodeva in tutta la sua drammaticità, ma anche in tutta la sua complessità. Come si può ricavare comunque da questi sommari cenni, è evidente che è ormai matura e avvertita da più parti l 'esigenza, diciamo così, di "rimotivare" una politica ed una cultura della tutela e della conservazione. D'altronde, per tornare a "noi", deve pur dire qualcosa il fatto che l'ostilità, o meglio quella che fu efficacemente definita la "paura parco", ancora oggi così diffusa, sembra come ieri alimentarsi degli stessi "pregiudizi". Pura e semplice memoria storica, dura a morire, o piuttosto il segno e la conferma che a suscitare gli stessi timori di ieri sono sovente proprio le motivazioni che appaiono sempre più datate e obsolete? In altri termini, perché una opinione pubblica, oggi indubbiamente più avvertita e sensibilizzata sulle tematiche ambientali, manifesta ancora, verso ipotesi di protezione, paure e diffidenze che accompagnarono l'istituzione dei primi parchi, avvenuta in contesti storici, politici e ambientali profondamente diversi? Può dipendere questo soltanto dal modo come la gente "percepisce" l'ipotesi di tutela, o non c'è, molto più probabilmente, qualcosa nel "messaggio" che risulta debole e quindi scarsamente persuasivo? Sono molti gli esempi che potremmo portare a sostegno di quest'ultima ipotesi: ci limitiamo qui a farne qualcuno attingendo dalla attualità ed anche dalla cronaca. Prendiamo le vicende tormentate della legge sulla caccia. Oggi come ieri viene presentato come requisito essenziale ed indiscutibile per l'istituzione di un parco il divieto assoluto di caccia, previsto anche dalla legge-quadro sui parchi; e ciò anche a prescindere da qualsiasi altra considerazione sulle concrete caratteristiche dei territori interessati. Non c'è in questo atteggiamento, a prescindere ora da qualsiasi altra valutazione dell'esercizio dell'attività venatoria, una riproposizione "dogmatica" di un principio indiscriminato che ieri poteva risultare determinante per la istituzione di un parco, ma che oggi non può assumere lo stesso ruolo nella scala dei valori e delle motivazioni che consigliano o meno la istituzione di un'area protetta? Ma veniamo ad un aspetto meno "passionale" ed emotivo e assai più rilevante quale è quello degli "effetti" positivi che può produrre la istituzione di un'area protetta. Circolano in proposito ormai dei veri e propri stereotipi, che rischiano di banalizzare anche risultati apprezzabili e significativi che nessuno può disconoscere. Sulla base di esperienze che sono state ampiamente pubblicizzate, come quella di Civitella Alfadena nel Parco degli Abruzzi, e di studi anche recenti, come quello del Numisma, si è cercato di dimostrare, dati alla mano, che un parco può portare ricchezza sotto forma di nuove iniziative turistiche e culturali: centri visite, guide, eccetera, in grado di offrire nuove opportunità di lavoro specialmente ai giovani. Queste "ricadute" sul territorio protetto ed anche nelle aree contigue sono non di rado reali e positive. Ma questa "contropartita", specie quando si tratta di parchi operanti su territori estesi e complessi dal punto di vista economico, sociale e territoriale, può facilmente dimostrarsi del tutto insufficiente. Enfatizzare perciò oltre un certo limite questi risultati, può alla lunga (ma non troppo) suscitare dubbi e perplessità più che certezze. Considerare infatti nella realtà di oggi, soprattutto in riferimento a territori nei quali l ' ago della bilancia degli interessi complessivi non può essere assolutamente mosso da "microeffetti" del tipo di quelli menzionati, quasi potessero questi risultare l'anello forte di una efficace azione a favore di una estensione dei territori protetti, è a nostro parere sbagliato e velleitario. Ciò che ci proponiamo di evidenziare con questi esempi è un dato: un conto è intervenire come ieri su territori "marginali", anche se di grande pregio e valore ambientale, altra cosa è intervenire su territori e ambienti "forti", comunque estesi, cioé dotati di strutture economico-produttive, di complessi sistemi infrastrutturali, e così via. Nei primi, qualche divieto e qualche "contropartita" poteva e può essere sufficiente. Nei secondi assolutamente no. E poichè in Italia i parchi non riguardano oggi, e ancor meno riguarderanno domani, territori ai quali sembra invece pensare ancora certo ambientalismo, ma anche altri, sarà bene riconsiderare la cosa. Da questo punto di vista, purtroppo, anche il dibattito sulla legge-quadro non è stato di grande aiuto. Al di là infatti delle disquisizioni sulla "valenza" dei territori da classificare in base a criteri non scientifici ma istituzionali e amministrativi, la legge sembra riconoscere ai territori da vincolare ed alle categorie sociali che ne risulteranno in qualche misura "penalizzate" il diritto ad un "risarcimento". Insomma vincoli, ma anche contropartite che compensino in un modo o in un altro i sacrifici. Ora, anche senza far proprio il giudizio che "con gli indennizzi si ha il potere di distruggere e risanare, ma lasciamo la natura stessa non risarcita" non v'è dubbio che la via del risarcimento non può essere considerata una risposta sufficiente. Siamo giunti così al nodo della questione: quale può e deve essere oggi il ruolo delle aree protette nella realtà odierna. Per le considerazioni che siamo venuti finora svolgendo, è chiaro che esso non può essere quello "marginale", o difensivo, volto a sottrarre limitate aree, ancora più o meno intatte, agli effetti di una economia sempre meno rispettosa dell'ambiente. Questo sì, sarebbe un ruolo velleitario e destinato a sicuro fallimento. Eppure questa "ambiguità", chiamiamola così, sulle finalità della protezione la si ritrova anche nel testo di legge-quadro, laddove, all'art. 2, comma I, si parla ad esempio dei parchi nazionali da istituirsi su aree "relativamente estese contenenti uno o più ecosistemi intatti o anche parzialmente alterati da fatti antropici". Ora, questo riferimento a ecosistemi intatti o parzialmente alterati dalla presenza antropica, tradisce una concezione che considera l'attività e la presenza dell'uomo, come è stato giustamente sottolineato, qualcosa di comunque "inquinante". Il parco, secondo questa visione, ha perciò lo scopo di "rimediare", riparare quel che l'attività umana ha, sia pure parzialmente, alterato. Inutile dire quanto questa filosofia non combaci molto spesso con la realtà "oggettiva": dove sono nel nostro Paese questi ambienti relativamente estesi e quasi inalterati? Riaffiora il rischio, in sostanza, di assegnare ai nuovi parchi un ruolo, se non "residuale" e "disperato" rispetto ai processi reali in atto, certo ancora "separato". I parchi invece vanno concepiti come strumenti di governo intelligente dell 'ecosistema, e non "enclaves" ove la natura è sottratta alla presenza e alle attività umane. Da qui scaturisce non solo la possibilità, ma la urgente necessità di istituire nuovi parchi in aree estese ma anche fortemente antropizzate. Così, una estensione significativa del territorio protetto può facilitare, aiutare questo "disegno" generale, impegnativo e improcrastinabile, di riconversione ecologica. Le risposte, insomma, vanno ricercate ormai a questo livello, perchè solo da qui può venire anche una rinnovata e convinta adesione dell'opinione pubblica alla istituzione di nuovi parchi. In caso contrario rimarranno fatalmente ampie zone di "ambiguità", in quanto sarà estremamente difficile comprendere come un modello di parco, ritagliato storicamente su territori praticamente privi o quasi di popolazione e di attività produttive, possa attagliarsi e andar bene per realtà e situazioni completamente differenti, del tipo di quelle con le quali dobbiamo ormai fare i conti oggi. In questo senso quindi è giusto parlare di esigenza di rivedere e "rimotivare" concezioni e ruolo delle aree protette. Occorre ricondurre e collocare il tema all'interno di una battaglia più generale per una riconversione ecologica dell'economia o, per usare la definizione del rapporto Brundtland, di una "economia sostenibile", in grado di non "compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri bisogni", non consumando insomma quel capitale natura, irriproducibile, che oggi non è conteggiato nelle stime del PIL, ma che concorre in maniera determinante alla ricchezza di un paese ed alla qualità della vita dei suoi cittadini. Un tema su cui sono chiamati a cimentarsi gli Stati e l'O.N.U. perchè, per usare il titolo di un piccolo libro che si raccomanda per chiarezza e ricchezza di argomentazioni e proposte, possa decollare un "Progetto per un'economia verde". La gestione delle nuove aree protette, concepite come estesi territori antropizzati ricchi non solo di natura, può offrire un valido ed interessante terreno anche di sperimentazione e ricerca in questa prospettiva. Per questo occorre una gestione nella quale anche i vincoli da negativi, cioè capaci di dire solo quel che non si può fare, si attivano ed assumono contenuti non più esclusivamente di interdizione ma di proposta, di progetto positivo. Qui risiede la novità maggiore della protezione oggi. Una protezione, cioè, che ha bisogno per esplicarsi di programmare i suoi interventi nei più vari settori di attività: agricoltura, fauna, flora, regimazione delle acque e così via, perchè tutti abbiano come parametro essenziale di riferimento quello della "sostenibilità" appunto sotto il profilo ambientale. Siamo oltre, a mio avviso, allo stesso concetto di "compatibilità" che contiene una sua "doppiezza", o meglio separazione tra due esigenze che devono faticosamente convivere, ma non ancora integrarsi. Siamo oltre perchè oggi si tratta di superare la defatigante e vana ricerca di un modus vivendi tra vecchio e nuovo e puntare su una riconversione globale. Si pensi solo all'agricoltura, a cosa significa passare da una produzione che punta tutto sulla quantità ad una agricoltura di tipo diverso, che punta sulla qualità e la tutela dell'ambiente. Anche su questo punto sembra ancora spesso prevalere una concezione vecchia. Quando si parla di agricoltura nei parchi, anche in molte leggi il riferimento è quasi sempre ad attività "tradizionali" delle popolazioni "residenti", quali la pastorizia, eccetera; ad una agricoltura, cioè, o scomparsa o divenuta ormai marginale; comunque non certo tale da connotare sul piano economico, produttivo e sociale i territori protetti. Lo stesso riferimento alle popolazioni "residenti" appare sovente "ripetitivo" e non più rispondente alla realtà odierna. I "residenti" di oggi, anche quando dediti ad attività "tradizionali", hanno infatti interessi sociali, economici e culturali, e quindi un rapporto con il territorio del parco, totalmente diverso dal passato, quando furono istituiti i primi grandi parchi. Continuare ad immaginare il rapporto parco - residenti come se in questi ultimi decenni non fosse stato profondamente "rivoluzionato" il contesto generale in cui si è chiamati ad agire ed in cui devono operare le aree protette, sarebbe davvero imperdonabile sciocchezza. Per tutte queste ragioni, ed altre ancora alle quali non abbiamo fatto riferimento, i parchi oggi possono diventare su larga scala, e non "in vitro", ambiti in cui, con il sostegno di risorse aggiuntive e speciali, si sperimentano e si avviano processi nuovi da trasferire poi anche all'esterno, in tutto il territorio regionale e nazionale. In questa prospettiva è evidente che abbiamo bisogno di un parco con competenze e risorse certo non del tipo di quelle dello Stelvio, spettatore impotente di interventi destinati a segnarne profondamente il territorio. Ma non basta neppure un parco dotato di competenze più incisive (la legge-quadro introduce al riguardo non trascurabili innovazioni) che debbono però fare i conti con molti altri centri di decisione, e soprattutto con una disponibilità ancora del tutto irrisoria di risorse e di personale qualificato. Se i parchi debbono essere uno strumento "speciale" di protezione del territorio, da impiegare non a tappeto, ma solo in determinate, anche se non marginali, aree del Paese, è chiaro che ne vanno tratte tutte le logiche conseguenze: politiche, legislative, amministrative, culturali e finanziarie. Su questo vorremmo avviare sulla Rivista un dibattito aperto a tutti. |