L'iniziativa che ha portato ad una definizione legislativa delle aree protette è stata alimentata da molteplici filoni culturali. Tra questi il dibattito sul paesaggio, naturale ed umano, ha sicuramente avuto un ruolo di rilievo. Ora alcune pubblicazioni rinnovano l'interesse intorno a questo tema.
Tra di esse, per la serie Quadri ambientali della Toscana promossa dalla Giunta regionale, era stato presentato nell'autunno del '90 il volume Paesaggi dell 'Appennino toscano, ed esce adesso il secondo, Paesaggi delle colline toscane, editi da Marsilio, entrambi a cura di Claudio Greppi. Insieme a Chris Wickham, Oretta Muzzi, Margherita Azzari, Leonardo Rombai, Maurizio Bossi, Stefano Cavalli e Lucio Sansone (sue sono le immagini fotografiche) faccio parte dei collaboratori, e quindi non spetta a me esprimere un giudizio sull'iniziativa; mi limiterò quindi a una notazione di carattere oggettivo che può essere indicativa per il lettore.
Il fine unitario dell'opera, che prevede un terzo volume dedicato alla costa, è quello di delineare l'intreccio dei processi storici e naturalistici che hanno materialmente costruito i paesaggi della regione. Dal punto di vista storico, tra i periodi che più degli altri hanno svolto un ruolo decisivo viene individuato il basso Medioevo, fase in cui in Appennino si produce la differenziazione tra la società montana e la Toscana urbana, mentre nelle aree collinari si avvia la formazione delle unità poderali e del rapporto di mezzadria. Il panorama socioeconomico della montagna medioevale appare ricco di varietà: la Lunigiana dominata da signorie rurali, la Garfagnana sotto il saldo controllo lucchese, l'Appennino pistoiese, geograficamente disarticolato, tenuto insieme dalla forza di coesione della sua capitale, il Mugello dominato dai fiorentini, il Casentino attratto da Arezzo, la Valtiberina priva di un polo urbano forte e, anche per questo, meno abitata. Né meno vario è il quadro della Toscana di mezzo, le cui discontinue fasi di colonizzazione sono dipese dalla ventura delle città dominanti e dei centri minori.
Un secondo periodo fondamentale è riconosciuto nell'intervallo tra Sette e Ottocento quando montagna e collina, con intenzioni e modi diversi, vengono entrambe sottoposte a uno sforzo gigantesco alla ricerca di un più completo sfruttamento delle risorse; è il periodo in cui tra 1 ' altro si fanno particolarmente vivaci la presenza dei viaggiatori, che vengono seguiti nei loro tentativi di "cogliere la natura sul fatto", e l'iniziativa degli agronomi, che con le bonifiche di piana e di monte ridisegnano l'aspetto di molti territori. La varietà delle diverse parti della regione viene quindi in questa fase ricondotta sotto un dominio politico unitario.
Dal punto di vista naturalistico vengono indagati sia la struttura geologica e tettonica della regione, i cui sovrascorrimenti a falde sovrapposte hanno occupato i geologi per buona parte del secolo, sia i caratteri del manto vegetale originario e l'insieme delle sue risposte evolutive alle sollecitazioni prodotte dall'uomo. Sono qui esaminate le norme e le eccezioni nella distribuzione delle flore per fasce altimetriche, la rarefazione e la progressiva scomparsa delle specie alpine lungo il crinale appenninico, la vicenda della formazione ed evoluzione dei boschi.
Nell'osservazione delle forme storiche del paesaggio, l'estensione e la costituzione interna delle aree boscate, le varietà e la distribuzione delle aree coltivate vengono colte nel complesso dei loro rapporti con i cicli del popolamento, con la distribuzione delle forme d'insediamento e con l'affermazione e l'avvicendamento delle forti influenze d'origine urbana, contrassegnate dai caratteri indotti dalle capitali storiche (si è già accennato a quelle della montagna: della collina sono di nuovo Lucca, Firenze e quindi Siena). Il paesaggio risulta così una combinazione, spesso molto complicata, di elementi naturali in evoluzione e di incessanti modifiche umane, dalla regimazione dei fiumi alle grandi bonifiche delle piane impaludate, dai diboscamenti al modellamento artificiale delle colline e alla forzatura di certe colture: il castagneto portato a sostituire il querceto originario, i cereali, la vite e l'olivo spinti oltre i loro limiti "naturali". Le forme delle strutture agrarie (il mosaico degli appezzamenti di coltivo, castagneto e pascolo, disseminati a diverse quote, tipici della piccola proprietà montana, l'orditura minuta e differenziata della coltura promiscua tipica della mezzadria collinare, e infine le grandi distese uniformi a seminativo) vengono quindi colte con la materializzazione concreta di molteplici relazioni tra natura, società e storia.
La delineazione dei caratteri costitutivi dei paesaggi toscani si arresta di proposito sulla soglia dei grandi mutamenti introdotti dallo sviluppo industriale recente e si offre come preliminare materia di discussione in vista di una possibile, successiva trattazione del processo con cui i quadri ambientali storici della Toscana sono stati investiti da modificazioni senza precedenti.
Dalla scala regionale alla nazionale: il numero doppio Gennaio-Febbraio 1991 della rivista di architettura Casabella è dedicato al tema "il disegno del paesaggio italiano".
Precedute dalla riproposta di uno scritto di Vittorio Gregotti e dall'introduzione di Bruno Pedretti, quattro sezioni scandiscono gli articoli dei numerosi collaboratori intorno ad altrettanti nuclei tematici; sono così tanti gli argomenti che non potrò che accennarli in modo affrettato.
Nella prima sezione ci viene proposta una riflessione a più voci sulle feconde ambiguità del concetto di paesaggio. Esso è al tempo stesso categoria interpretativa della superficie terrestre e oggetto sensibile della percezione, e in quanto tale è esposto sia all'indagine scientifica che all'apprezzamento estetico. Costruito e modellato sotto la spinta del bisogno e in base alle regole coercitive della produzione, e in generale dell'economia, più che secondo le libere pulsioni del piacere e dell'attitudine al bello, il paesaggio si rappresenta a noi come un intreccio inestricabile di funzioni e di forme. Da questa ricchezza e ambiguità di significati discende un'infinita varietà dei modi umani (scientifici, storici, artistici) di coglierlo, fruirlo, razionalizzarlo, raffigurarlo e infine, quando è possibile, goderlo. L'attenzione degli autori si concentra prima sul tema della definizione geografica del concetto di paesaggio e poi sul tema della sua percezione visiva. Qui la problematicità intrinseca alla raffigurazione del paesaggio si riversa intera nella suggestione descrittiva delle vedute pittoriche, nella precisione del disegno tecnico agronomico, nell'evoluzione del disegno cartografico dalla "poesia" dell'ombreggiatura a luce obliqua all'esattezza prosaica delle isoipse (gli scritti sono di Franco Farinelli, Massimo Quaini, Claudio Greppi, Carlo Olmo, Giovanni Romano, Paolo Fossati).
Nella seconda sezione la consapevolezza dell'aggressione subita dal territorio italiano negli ultimi decenni pone l'esigenza di un impegno in chiave paesaggistica di tutta l'attività progettuale, dalla scala urbanistica all'architettonica; vengono avanzate idee e proposte, sono presentati esempi di progetti concreti (gli scritti sono di Franco Purini, Ippolito Pizzetti, Gilberto Oneto e Giovanni Sala, Vittoria Calzolari). La mia impressione, che cercherò di chiarire tra breve, è che la scala urbanistica sia qui intesa in modo piuttosto riduttivo, e che l'impegno, di cui viene affermata la necessità, finisca per essere esercitato più in opere puntuali che nella dimensione territoriale.
La terza sezione tratta il tema da un punto di vista più spiccatamente naturalistico. Prende forma una ulteriore definizione di paesaggio, fondata qui sulla classificazione delle associazioni vegetali, naturali e artificiali. Sta in primo piano il confronto tra 1 ' ambiente naturale e l'azione umana che lo plasma, lo forza, lo altera. Viene sottolineata la necessità di misurare con estrema precisione le soglie di resistenza dei quadri ambientali sottoposti alla potenza virtualmente illimitata delle trasformazioni antropiche. Una sintesi critica dei modelli e delle logiche di tutela ambientale ci illustra i problemi intrinseci alla formazione delle aree protette (gli scritti sono di Floriano Villa, Sandro Pignatti, Stefano Cavalli, Mario Zambrini).
La quarta sezione è dedicata agli aspetti politici e legislativi del tema, discute potenzialità e limiti della legge n. 43/1985, detta legge Galasso, e si conclude con l'esame di due casi concreti di piani paesistici: l'emiliano e il ligure (gli scritti sono di Paolo Leon, Achille Cutrera, Giorgio Franchini, Augusto Cagnardi). Le quattro sezioni sono intervallate da tre parentesi antologiche, illustranti una varietà di ipotesi progettuali. La prima ripercorre l'arco dagli anni trenta ai nostri giorni presentando vari esempi scelti tra i più diversi orientamenti come significativi di un'attitudine paesaggistica della nostra cultura architettonica e urbanistica. La seconda presenta alcuni esempi di rapporti tra opera e ambiente che, in modo eufemistico, si potrebbero dire fortemente dialogici; in qualche caso siamo di fronte a una netta contrapposizione tra natura e manufatto. La terza antologia è di segno opposto; stanno qui esempi di asserito mimetismo progettuale, alcuni dei quali versati più al restauro del paesaggio che all ' intervento su di esso. La mia opinione, rafforzata da questa rassegna di proposte, è che anche nel contesto di una progettualità tesa verso un rapporto non ostile nei confronti dell'ambiente, tra i progettisti finisca spesso per prevalere la tendenza a marcare con enfasi il segno dell'intervento sulla natura: una griffe manifesta, inconfondibile e possibilmente ben visibile anche a distanza sembra essere per molti di essi un corollario irrinunciabile del loro lavoro.
L'apparato iconografico della rivista è arricchito da immagini pittoriche e cartografiche di fascino straordinario. Il gran numero degli interventi e una inevitabile discontinuità tra di essi danno alla raccolta un certo carattere rapsodico, forse non indesiderato dai curatori. L'insieme risulta in ogni caso stimolante e invita alla discussione in più direzioni. Poichè gli spunti sono innumerevoli, da parte mia tenterò qui di limitare le mie osservazioni intorno ad un solo nucleo tematico.
A me sembra che, in questo panorama sul disegno del paesaggio italiano, manchi in sostanza la sua osservazione alla scala urbanistica o, se si preferisce, territoriale in senso lato. Nei progetti presentati il paesaggio appare, nella gran parte dei casi più come uno sfondo indefinito, su cui si stagliano i profili degli interventi architettonici, che come un organico complesso di relazioni spaziali, soggetto esso stesso del ragionamento progettuale. Al contrario, ritengo, il titolo scelto pone di per sé l'esigenza di una visione d'insieme, soprattutto se si considerano i mutamenti avvenuti proprio su questo piano negli ultimi decenni. Passiamo mentalmente in rassegna il paesaggio urbano, con le sue aureole periferiche dilatate, poi quel paesaggio di transizione sempre più pervasivo, nelle piane e in molti fondovalle, che è la campagna urbanizzata, per giungere infine al paesaggio agrario vero e proprio, drasticamente mutato dalla sua inevitabile sottomissione alle regole della produzione industriale; confrontiamo le tavolette IGM degli anni cinquanta (o, se vogliamo, degli anni trenta) con quelle di oggi; confrontiamo le foto aeree degli stessi periodi. Apparirà evidente lo scarto che le separa: si è costruito di più, si è consumato più suolo nell'ultimo scorcio di secolo che in tutti i secoli precedenti, mentre i reticoli dei territori agrari sono stati o permeati dalla diffusione dell'edilizia industriale e commerciale o mutati nel loro disegno dalla meccanizzazione dell'agricoltura.
La discontinuità tra il prima e il dopo è evidentissima, da qualsiasi punto di vista la si consideri: la quantità di suolo occupato (le tabelle raccolte in Quaderni di Urbanistica Informazioni n. 8 sul consumo di suolo pro capite sono a questo proposito molto istruttive), la morfologia urbana, i tipi edilizi (chi ci perdonerà gli orrori degli ultimi cinquant'anni? Chi li sottrarrà alla nostra vista?), la localizzazione e distribuzione delle attività economiche, la maglia dei territori agrari. La discontinuità che tutte le riassume si manifesta nella dimensione del tempo; prima della rottura la storia delle modificazioni territoriali si snoda con la logica della lentezza, dell'addensamento e della piccola dimensione, in una sequenza di distruzioni e ricostruzioni, di piccole modifiche e di aggiunte parziali: anche le grandi operazioni urbanistiche ottocentesche coprivano spazi che oggi sarebbero contenuti senza difficoltà in un solo quartiere metropolitano. Dopo la rottura si afferma la logica della velocità, della grandezza e della dilatazione.
Di questa generale metamorfosi del paesaggio alla scala geografica, di cui non siamo in grado di renderci pienamente conto proprio perchè vi abbiamo assistito, non sono ignoti i motivi demografici ed economici né i vantaggi, anche di grande rilievo, di cui le popolazioni hanno potuto godere, sia pure non in eguale misura. Resta però il fatto capitale che non sappiamo intenderla nel suo complesso e soprattutto non sappiamo guidarla verso esiti meno nefasti di quelli che abbiamo già prodotto.
La riprova di questa diffusa impossibilità di cogliere il paesaggio nella sua articolazione complessiva, e quindi di operarvi con una logica conforme al suo impianto storico (questa invece secondo me dovrebbe essere la regola maestra), sta nell'insufficienza degli strumenti legislativi e nel vizio d'origine del principale dispositivo pianificatorio, il piano regolatore. La legge 431/1985, senza nulla togliere ai meriti del suo promotore, è in ritardo di quarant'anni: la ricostruzione postbellica, non la situazione attuale, avrebbe dovuto essere fronteggiata con le sue essenziali delimitazioni; obbedendo al suo dettato sarebbero almeno stati chiari i confini delle aree dove non si doveva costruire. Ma la sua capacità di indurre effetti positivi al di fuori delle aree protette è affidata all'incapacità delle Regioni di elaborare e adottare piani paesistici complessivi.
La perimetrazione delle aree protette (parchi naturali, aree di riserva, aree a protezione estensiva) è sacrosanta, e va sostenuta l' azione di coloro che lottano per garantirla ed ampliarla, ma diciamolo chiaramente: il paesaggio non si esaurisce nelle aeree protette. Sono paesaggio anche i territori agrari, le campagne urbanizzate, le aree industriali, le masse urbane, i loro centri storici. Ora, tutto ciò che non appartiene alle aree protette ricade sotto il dettato del piano regolatore, magari attraverso la mediazione affabulatoria di un piano paesistico.
Ma l'oggetto del piano regolatore non è il paesaggio, è il territorio, per di più spesso inteso secondo una particolare accezione: pura estensione, mera rex extensa, da suddividere e in cui distribuire usi e funzioni. Il piano che stabilisce l'uso industriale di un'area è indifferente alla forma, ai materiali, al colore della fabbrica che vi sorgerà; di più, può essere addirittura indifferente all'insieme delle relazioni spaziali, fisiche e umane, che avviluppano l ' area a quello scopo destinata. Citando a caso: l'insediamento di un vasto stabilimento industriale, tra seminativi e canali alberati nel piano di Rosia, nei pressi di Siena, ai piedi di una spalliera collinare disseminata di borghi medioevali; la sua torre di cemento fa il verso alla mole in pietra delle case-torre. Non c'erano proprio altri posti?
Ancora: il piano riserva ai centri storici il rango di zona A (in cui è permesso il solo restauro conservativo ed è interdetta la ristrutturazione) però può accadere che non curi l'accostamento tra questa e le altre zone. Tra mille esempi: il ripiano alto a tramonto delle mura di Colle Valdelsa, dove accanto a un mirabile cimiterino in pietra sorge un inverosimile cimitero postmoderno, che il suo autore si sarà sicuramente illuso di far "dialogare" con l'antico.
Inoltre: il piano può essere particolarmente severo nel far rispettare le norme rela.tive alle aree agricole, ma il diverso trattamento riservato agli abitanti e ai produttori può far sì che la limitazione del diritto a edificare subita dall'abitante si rovesci in licenza senza limiti concessa al produttore. Sempre tra mille esempi: in Val di Greve, accanto al Castello di Gabbiano, a pianta quadrata con torri cilindriche agli angoli, sicuramente vincolato e dove per cambiare un tegolo occorrono di certo cento permessi, si permette che si innalzi a pochi metri una enorme, moderna cantina in cemento che mette fuori scala il castello.
E ancora: il piano, in accordo con la legislazione, protegge l'area boscata ma permette che ai suoi margini la ristrutturazione agricola devasti i terrazzamenti della coltura promiscua, accumulando ai confini del campo appena spianato, indecorosa corona visibile anche a grandi distanze, la pietraia assortita che, un tempo struttura portante della superficie produttiva, ne rappresenta ora lo scarto ingombrante, inamovibile e inutilizzabile (almeno per l'uomo: sembra invece che sia un formidabile rifugio per le volpi).
Esempi toscani in tono minore, certo; se ne troverebbero senza fatica altri più clamorosi e adeguati ai caratteri di altre regioni. Ma utili a sottolineare l'essenziale: che di una miriade di umili tessere, ognuna di per sé modesta e senza importanza, è fatto il paesaggio, molto di più che dalle singole emergenze eccezionali; e che trascurando la logica che tiene insieme le loro relazioni reciproche, si compromette il suo prodotto storico. Nella sua prefazione al volume di Biffoli sulla casa colonica toscana, Guido Piovene l'aveva detto, molto meglio di me, con accento tanto equilibrato quanto persuasivo.
Fino a pochi decenni fa, il capomastro che aggiungeva un nuovo corpo a un borghetto di case a schiera, o alzava una nuova casa colonica nel centro di un podere, e il mezzadro che rizzava il muro a secco di un nuovo terrazzamento a girapoggio, o s'industriava intorno a un canale di scolo, usavano lo stesso comune materiale linguaggio costruttivo. Il loro lavoro, impastato sì di miserie e fatica, ha tuttavia costruito la bellezza del paesaggio. Non credo si possa essere accusati di nostalgia per il pluslavoro trascorso se rimpiangiamo le forme che esso ha prodotto. Un ragionevole rimpianto non pare infondato: oggi che riteniamo di conoscere i segreti di quella bellezza, abbiamo perso l'uso del suo linguaggio e non sappiamo più conservarla né rinnovarla.
*Ricercatore incaricato di geografia urbana e regionale all'Università di Firenze. |