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Dente di Cane: petali rosa e foglie macchiate di porpora

Una meraviglia di marzo

(12 Mar 24) Un altro fiore di primavera sbocciato proprio in questi giorni può offrirci il pretesto per un'escursione nel Parco della Vena del Gesso Romagnola, ma anche – perché no – nel Bosco della Frattona o in analoghi boschetti della prima collina.

Si tratta del Dente di Cane (Erytronium dens-canis), una liliacea – stessa famiglia dei gigli, ma anche dei tulipani, dei giacinti, del mughetto e pure di piante molto diverse come aglio, asparago o perfino l'aloe – piccola ma incredibilmente bella.

Cos'ha di speciale? Intanto il fiore, con sei petali di un color tenue che va dal rosa al lilla e con, all'opposto, antère (i contenitori del polline) di un viola che può anche esser molto scuro, quasi nero o bluastro. Poi le foglie, anch'esse singolari: più glauche che verdi, quindi con tonalità verdazzurro, spruzzate di belle macchie color porpora. Infine il bulbo, ovviamente non visibile ma di forma curiosa, a corona allungata e appuntita che ai botanici che lo classificarono ricordò, appunto (da qui il nome della specie), quella di un dente canino.

Le particolarità non sono finite: i petali tendono ad arricciarsi scoprendo gli stami scuri e lo stilo centrale che invece è bianchissimo; in alcuni esemplari i petali si arricciano talmente da lasciar intravvedere la base interna, orlata di un colore che va dal giallo al ruggine fino al rosso vivo. Insomma, si tratta di una gioia per gli occhi e di uno dei fiori più fotogenici d'Italia.

Il Dente di Cane è anche abbastanza raro, o meglio: fa parte della flora spontanea protetta dell'Emilia Romagna ai sensi della legge n.2/77 che, come noto, tutela le piante rare o in procinto di diventarlo. Un po' come il bucaneve, la scilla bifolia o alcune orchidee, il Dente di Cane in certi casi può dar luogo a popolazioni molto ricche, anche di centinaia di esemplari, come avviene infatti nel territorio brisighellese. Tuttavia questa specie è legata a terreni freschi, tendenzialmente acidi, forestali, non uniformemente diffusi nella nostra regione. In Pianura Padana venne quasi del tutto estinto (del tutto in E/R) con l'eliminazione delle originarie foreste; in collina e in montagna mantiene ancora un certo numero di stazioni nella fascia dai 400 agli 800 m s.l.m., con digressioni in alto (fino a 1500 m s.l.m.) e in basso fino ad alcuni boschetti pedecollinari. Queste stazioni in Emilia-Romagna sono più concentrate ad ovest, nel piacentino-parmense, per diventare via via più sporadiche procedendo verso l'Adriatico.

In provincia di Ravenna il nostro giglio conta una decina di stazioni (intese come quadranti di presenza nel censimento dell'apposito Atlante di distribuzione), due delle quali segnalate già nel 1880 da quel pioniere delle ricerche botaniche che fu il faentino Lodovico Caldesi. Le più importanti, anche da un punto di vista numerico, si trovano sulla Vena e in particolare al Carnè e nei dintorni di Sasso Letroso; altre segnalazioni riguardano i castagneti attorno a San Cassiano sul Lamone e soprattutto i residui di bosco che punteggiano come briciole la prima collina faentina, fra Rivalta, Castel Raniero, Pergola e Tebano. Analogo a queste ultime, almeno per quanto riguarda habitat e suolo, è il sito del Bosco della Frattona, nell'imolese. 

Per comodità e per chi volesse fotografarla, indichiamo la stazione del Carnè, lungo il "Sentiero degli Abissi", nel versante nord della pendice che sovrasta il rifugio in direzione Rontana e in cima alla quale si trova, appunto, l'Abisso Carnè.

Non sarà inutile ricordare che la raccolta dei fiori – oltre che vietata dalla legge – è del tutto inutile perché quelli recisi non durano, neanche nell'acqua. Per ricordo è molto meglio una fotografia.   

Sandro Bassi

Foto F. Grazioli
Foto F. Grazioli
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